De pura accidental vicenda scovo, in lo social cassone, antico bran de Aretino, dedito a tal romito in pratiche de venere assai guarnito.
Col mio nome credomi evocato ma trovo altrui che l’ha pur troncato como l’original attore. Ne nasce ardito negozio de favelle buone ed ecco il sunto.
Caro Romito, fummo tiroti in lo ballo por causa de fornicatione nonistante a cuelli de nostra ispecie, si nomen est omen, l’agir colli lombi sirebbe atto de pauco asceticazione et cagion de corrupta spiritual portanza. Ma se sa che lo trattiner per longa pezza le carnal pressure adduce de libido incontinenza et le verghe assai più dure.
Tocco ancora questi reperti della civiltà più che serena. Ella, che nutriva generosa l’Arte Sua, d’innumeri Efesti. Ella, Vagina odorante per lignei bastimenti, gremita di genii e reali prostitute. Ella, sincretismo d’anime sante e perdute. Ella, di pali conci e remenati, salubre ad Eros. Culla! Talamo! Ricovero! Giovamento! Ella, dominante il divino equilibrio tra il principe della solitudine e Thanatos, oltre il Franco Nano, il tramonto dell’ultimo sole repubblicano, i languori ottocenteschi, gli amabili deliri futuristi, il secolo crudele. Ella, oggi, non può più…
Ella rimane reperto, testimonio afono, intraducibile, indefinibile. Sola, nell’inutile, generico non silenzio, di precoci masse inconsapevoli, informate, ottuse. Perisce, nel suo grembo, Eros: sconcio alla globale stupidità; lacero al maniaco svelamento; tristo al compulsivo, febbricitante, logorio delle repliche; vano al pubblico gratuitamente plaudente e ridanciano; largo all’ignobile democraticità.
Eros giace senz’armi né croci. Straziato da immensi, rigidi, frigoriferi galleggianti, da cui non giunge voce ma pallidi lampeggianti. Trascinato da marine correnti e invadenti, che inducono ossigeno al suo vital torpore, bruciando ogni cellula ch’era grata alla nausea d’amplesso ed al dolor inguinale post priapesco.
Eros giace sfinito dal political corretto; affetto da una prostatite corrotta e clientelare; sfigurato da cretinissime spacconate, d’ideologiche disavventure; annichilito nell’invidia iconoclasta del mediocre erede, rincoglionito impotente defunto.
Eros: inafferrabile eiaculatoria liberazione; apotropaico sputo in faccia all’oblio; semplice ed astratto;
Eros soccombe al disumano sforzo di vincere l’inevitabile esistenza, opponendo alla quotidianità spregevole e possibile l’eroicità nobile e impossibile.
Tragedia Bitonica in 3 Atti Unici redatti e diretti da Nicola Eremita da una frase di Massimo Moro: “Perché non fai una tragedia??”
ATTO I SCENA I entrano Scrofoloso e Spampinato due disgraziati
SPAMPINATO: Qual ora che volge al desio siam lesti a camminar?
SCROFOLOSO: Già pria il diss’io; più non dimandar! in sul calar del sole nella foresta andiam e col calcar le suole, indietro non torniam. Mira le nubi far capriuole, non proferir altre parole.
SPAMPINATO: Amici siam da tanti lustri senza speme e per nullo illustri perciò non ti frustri quel che appare tra quegli arbusti!
SCROFOLOSO: amici siam perciò ti credo n’è miasma ma fantasma, ciò che vedo!!
SPAMPINATO: Scrofoloso! Che paura! Son nervoso, presto scappa! Dai fuggim che ormai notte xe drio venir!!
ATTO I SCENA II entra il fantasma Eugenio C.
EUGENIO C.: O mortali! Non fate che vi stecchi! Non tutti i fantasmi sono becchi, compare vostro e vostro protettore qui mi faccio con ardore.
SCROFOLOSO: Non quel che tu desii a noi è conso ma di quel che ci dai fàmme conscio.
EUGENIO C.: Di vendetta e gloria vi faccio dono in cambio di levarmi da quel trono che mi fa dei cornuti Re e Patrono.
SCROFOLOSO E SPAMPINATO: Vendetta e gloria non son per noi! Noi andiam, tu fa quel che vuoi; degne di cavallier son quelle cose per i cafon son disgrazie biliose.
CORO: S’ode un boato, un dittongo e uno iato.
EUGENIO C.: Son Eugenio C. Padron del fato e vostro futuro è già segnato, in disgrazia vi getto di qui a un annetto!!
SCROFOLOSO E SPAMPINATO: Disperazion non ci ange, minaccia non ci tange, già di disgrazia siam pecchi, com’essa ti mise tra i becchi.
CORO: S’azzuffa Spampinato, si rotola sul prato, e presso ad un burrato vede che una cavalla avea cacato e vede Eugenio C. gradasso e preso da orribil sconquasso afferra da terra una castagnola lanciolla in faccia alla banderuola, così continua e così fè Scrofoloso, finché Eugenio non fu lordoso e tutto di cacca involto cascò giù pel colle incolto. Vedendo tal caduta di quell’anima cornuta, i due amici riser tanto d’arrivar financo al pianto. Or già pieni di compassion, l’accettaron qual amicon!!
ATTO II SCENA I Scrofoloso e Spampinato e il fantasma Eugenio C. bighellonano.
SCROFOLOSO: Oggi in tre noi siam scapestri, per il mondo bighelloniam per città e case rupestri, che sarà se non cambiam? Che ne dici sor Fantasma se stà vita da marasma diventasse un tulipano? Al Castello di Merano!! Non è certo come a Linate dove l’aria la paghi a rate.
EUGENIO C.: Orsù andiamo a questa Merano alta la fronte e pronta la mano. Occhio al biroccio, tira quel laccio, Scrofoloso e Spampinato; con voi gliela faccio!!
CORO: Tutti e tre i nostri compari prendon un treno che va fino a Bari, poi, accortisi dell’errore, tornano suso in circa sei ore. Perso il biroccio sotto un ippocastano infin si ritrovano a Merano.
ATTO II SCENA II:
SPAMPINATO: Ecco il Castello in riva al mare guardate come son alte le mura, o Scrofoloso, hai voluto strafare ma la sua mole mi mette paura.
SCROFOLOSO: Mio caro e bon Spampinato tue son le stupidate ed il cervello malato, tu sei pazzo se credi che sto castello si conservi un fatato suggello che maledice colui che puote abitarne le stanze vuote.
EUGENIO C.: Ad esser sincero, a dire del vero; pur anco a me era parso codesto Castello di malvagio cosparso. Si dicea mill’anni addietro ch’esso fosse stato d’un Pietro morto in flagrante amplesso con un grosso maiale lesso, quando consorte trovatolo impietrita ed alquanto crucciata, presa una gamba del tavolo lo schiacciò con una bella stangata!!
SCROFOLOSO: Or stoppate vostra insana natura che del Castello vi mette paura. Fabule son, non hanno riscontro, non vi credete, anzi, ridete, perché se per vere agli altri son contro per noi son robusta parete all’altrui avidità compatta che fa del mondo dell’omo una schiatta!!
CORO: Or vedete i nostri sventurati scrutar essi già questo Castello tremanti per le mura e gli archi rialzati, per gigantesche torri, per profondo avello, che tutto lo circonda e lo fa sontuoso, contro l’ardire dell’uomo voglioso.
ATTO III SCENA I Scrofoloso e Spampinato e il Fantasma Eugenio C. giungono al Castello.
CORO: TOC! TOC! TOC! Fé il Fantasma. ( entra Guliermo il portiere ).
GULIERMO: A che te tu voi? Maledette so i tuoi! A che te tu hai da rompe?
GULIERMO: Oh che te tu dici? Fora dae toe, lassateme stà! Ché colla gente nun voio avé a che fà!
CORO: Guliermo si barrica dentro e preso un secchio di peltro, riempello con orina di topo; e cosa fa ve lo dico dopo. Corre sui piani elevati e lo svuota sui tre disgraziati; allora i tre scompisciati di molto si sono arrabbiati. Sfondan il portone d’un tratto, prendon e menan quel matto.
EUGENIO C.: Espugnato ti ho brutto malanno non far mossa non batter ciglio, o repente subito ti scanno: se mi fai saltar cipiglio!!
SPAMPINATO: Guarda Scrofoloso, gioisci Eugenio; questa fortezza contiene un premio! Cortigiane son quelle! Tutte bionde e tutte belle!
SCROFOLOSO: Quale dolce visione, son più del visone! Vieni bella gnoccona!
MARILONA: Io mi chiamo Marilona.
SPAMPINATO: E tu di nome come fai?
CORTIGIANA: Se mi tocchi passi i guai.
SCROFOLOSO: Agguanta Spampinato.
SPAMPINATO: Afferra Scrofoloso.
SCROFOLOSO: Se non mi sono ingannato.
SPAMPINATO: Questo è Paradiso godoso!!!
ATTO III SCENA II
CORO: I tre furfanti matricolati che le ragazze avean violate non sapean ch’eran fregati siccome a sacrificio ell’eran destinate per quel famoso maiale lesso che la moglie avea trovato col marito in dolce amplesso marito che poi avea stroncato. Sarebbero arrivate di lì a poco due nere anime di fuoco che avrebbero portato il maiale lessato che con orribil latrato si Scrofoloso e Spampinato si sarebbe cibato ed avrebbe bruciato, con alito di velluto, anche Eugenio C., Fantasma cornuto.
SCROFOLOSO: Oh che bella questa vita che orgiando fugge via, resta qui mia dolce Rita, ti regalo una Sierra Ghia.
SPAMPINATO: Oh che bello questo mondo che godendo rende grati, resta qui mio seno tondo ti regalo una Maserati
SCROFOLOSO e SPAMPINATO: Eugenio? Hai tu qualcosa che ti storna?
EUGENIO C.: Amici! Canto alla Luna il dolor delle mie corna! O Luna che in cielo brilli non mi abbandonar piangente assettati ed ascolta i miei strilli senti il mio cantar fremente. che al cuor mi fa venir dei grilli. Guarda quest’uom sofferente. Mogliera mi tradì una sera e fé di mie corna una vera tortura che mai non morì, fintanto che mia vita finì. Tradimmi anche da morto, nasciòmmi sto corno contorto. Or vendetta voglio e pretendo, anche se l’anima al Diavolo vendo!!!
SPAMPINATO: Chi son quei tre figuri che si stagliano sui muri?
SCROFOLOSO: Assassin! Maledizion! Ci disfidano a tenzon!!
EUGENIO C.: Alla spada, alla marra!! E sia morto colui che sgarra!! Difendiamo nostra conquista, dall’odio nemico egoista.
EPILOGO
CORO: Feroce duello s’ingaggia nel Castello. Attaccan da destra gli uomini neri. Difendon da sinistra i tre calimeri! Lo spadon di Spampinato trafigge il nemico; la marra di Scrofoloso lo schiaccia tal fico. Fendenti, magli, volano denti SCRASH! STUNF! SPALF! SOCK! Al par d’Enea lottan furenti!
EUGENIO C.: Ora capisco la maledizion è vera, costoro son de la morte nera, vengon a prenderci per sacrilegio d’aver portato al Castello lo sfregio di nostra presenza invadente; ma non cederemo per niente!
SPAMPINATO: Ah! Colpito son ma non m’arrendo, meglio morire combattendo per un’ora di piacere, dopo una vita di soffrire.
SCROFOLOSO: Ah! Tagliòmmi una man ma son più di Conan, resisterò financo a doman per serbar sto tulipan del Castello di Meran!!
EUGENIO C.: Ah! Maiale lesso, arriva indefesso; allor sei venuto a bruciar sto cornuto? Ah, son fregato! Ah, son bruciato!
SPAMPINATO SCROFOLOSO: No! Eugenio C. No!
EUGENIO C.: Addio addio, amaro è morir senza vendetta ne colpo ferir…
SPAMPINATO SCROFOLOSO: Ah! Maiale mangiòcci, noi poveri fantocci… Per i cafon non c’è speranza. Noi combattemmo feriti e malati, per difender nostra abbondanza ma finimmo morti ammazzati… Non degnosa fu poi nostra morte, in bocca al Maial la nostra sorte ai Cancelli del Ciel ci apre le porte; e pensar che sto casin fu per sei donne e un fiasco di vin!!
CORO: Questa è la storia di Scrofoloso Deodato e dell’amico Rutelio Spampinato che incontrato Eugenio C. s’un prato furon mangiati da un Maiale lessato per sei donne e un litro di moscato.
Estate 2012: no, Venezia pare proprio non essere una località adatta agli artisti, non più; magari un tempo; ma oggi non più. Antonio Melis, poeta, regala i suoi componimenti alla gente; in cambio s’aspetta un’offerta per tirare avanti. Questo non piace. No!
Perchè è una libera e spregiudicata affermazione del libero pensiero, in cambio di una mancetta per un caffè, una pizza, un paio di scarpe usate.
La profonda potenza destabilizzante e sovversiva dell’agire nella legalità con scopi elevati senza alcun patrocinio, senza alcuna ratificazione ufficiale, senza alcuna consacrazione al pubblico si mostra in tutta la sua luce in questo fatto che sembra banale. Antonio Melis non è in linea con ciò che si possa tollerare anche perché è assolutamente lecito.
Feroce negativa distruttiva.
Un massacro del corpo e della mente.
La negazione di qualsiasi illusione.
La nemesi del buono e del giusto, la dynaton dell’immoralità.
Ballo ipocrita e latino.
Latino nel modo più sfacciato e deliquente e irrazionale.
Detestabile come una telenovela, odioso come un colonello argentino.
Arrogante e presuntuoso.
Ballo amato dalle nullità e dai profittatori dalle puttane e dai papponi.
Oggi, purtroppo, rappresentato vilmente nelle milonghe popolari, ridotto ad intrattenimento dopolavoristico e decoro per scorci storici e moderni delle nostre comunità alienate.
Qui, oggi, c’è tutto un sottomondo nostrano ripugnante e gretto, che vivacchia con la bugia del tango in un misto tra finta tradizione fanatismo e “border line” da invasati.
Perse le glorie della miseria, del puzzo di fumo e di sudore; perso l’onore del coltello; perso anche il sapore di lugubre erotismo, non resta che una sconcia parata, insulsa e sdolcinata, di comparse tristi.