A la maniera del “Bestiario Moderno” sui recenti fatti d’appropriazione indebita d’altrui letterario manufatto
Ignota ai più la vicenda che vide verso fine marzo 2024, Pasqua imminente, una popolana utente del socialnetwork FB appropriarsi senza alcun diritto di componimento letterario aforistico rilasciato dalla pagina “Bestiario Moderno”.
Il fatto diede seguito a dignitosa reprimenda che s’inflisse proprio nella bacheca della rea con una sostenuta ed onorevole fecal tempesta di commenti.
Seguendo con piacevole interesse i testi letterari del “Bestiario Moderno” da alcune settimane e considerando la letteratura volta ad un triste destino d’aridità senza il flusso continuo ed inesorabile dell’umana stupidità, ho voluto dedicare un breve racconto alla maniera “Bestiario Moderno” in riferimento al tossico ( ma neanche tanto ) episodio sottrattivo ed abusante.
La redazione dell’eccellente pagina, cui ho sottoposto il brano, non me ne voglia o magari voglia farsene delatore.
La Gazza Ladra
La gazza ladra al tramonto era lurida di fango e di quelle polveri tossiche che s’impastano ai bordi delle strade; saltellava lugubre mentre approntava il decollo per svolazzare verso il suo nascondiglio quando vide quel maledetto scintillio.
Impossibile trattenersi pur avendo l’intestino pieno di lombrichi larve imenotteri falene lucertole che pretendevano il loro destino. Si gettò quindi sul bottino, là tra una pietra miliare anno 18 dell’impero e un sacchetto della Lidl pieno di lattine di tonno sfondate, fazzoletti incrostati di moccio e sperma e lastre di pvc dure come acciaio in cui le fette dei porci resistono alla decomposizione.
Col becco infilò la catenina ma era lunga e attorcigliata in parte in quello schifoso cespuglio di ortiche tarassaco ruta filtri marlboro e piscio. La gazza si mise a picchiettare ostinata là, nel torbido.
Sotto il suo becco avido sbucarono alcune decine di piccoli toporagno affamati, la toporagno-madre era stata schiacciata la sera prima mentre rientrava con la spesa.
I toporagno con le fauci taglienti lacerarono il collo della gazza sbranandola in pochi minuti. Poi si divisero il bottino e fieri sfilarono ognuno con la sua catena d’oro sul collo villoso.
Libero componimento di dedica ai sentimenti verso Venezia e il suo ethos
Premabolo
E fu così che i primi di gennaio 2024, ricevuta la notizia, mi iscrissi per la seconda volta al fortunato Festival della Poesia Erotica Baffo-Zancopè, l’altra volta fun nell’ormai lontano 2015.
Per gli uomini stupendi e le donne meravigliose de La Compagnia de Calza I Antichi, giunti già alla trentaduesima edizione del Festival, ho riservato questo libero componimento non in metrica e con rima zoppicante. La graziosissima Giuria ha voluto quindi lodare il componimento con il Premio Mario Stefani.
Esso nasce dai seguenti fondamentali:
il brano di Beethoven;
le parole di Lamberti;
gli acquerelli di Giovanni Testa eseguiti al Lido tra il 1985 e il 1990.
Beethoven si divertì a scrivere canzoni di stile popolare, tra le tante che compose vi fu anche quella dedicata a Venezia, Lamberti vi dipinse sopra un brano poetico di profonda dolcezza e delicatezza eccola:
A la biondina in gondoleta
Cara la mia biondina, putea par sempre! Senza il fio d’un Dorian Gray. Vai nua nuando par canaletti canalini e canalassi, sfiorando insulsi tesori, grevi sui fondali, in acque salse, infette, luride, di sentimenti popolari.
Cara la mia biondina, con te in gondoleta vogo i miei trent’anni. Sonnecchi, t’accoccoli, come i tuoi innumeri gatti. Sotto, mille più mille pescetti in plumbei banchi. Sopra, il ciel bruno, istoriato di tetti, poi prussiano, celeste, ridanciano agli occhi stanchi.
Cara la mia biondina: “Ti geri Regina dei mar!”, “Mi so rivà tardi! Tardi a fare arte e amor co’ ti!” Sei bimba da ciavar, di quelle che va anca coi veci. Di quelle che va anca col balon da vento e la so pantegana. Che va co tuti, basta che i paga!
Cara la mia biondina, nazion che volevasi impero, maliarda d’ambascerie. Oh me ignorante! Casati Stampa te credevo; sei persa in una sagra di fumose fesserie. Sensual domine de scritte licenziose, sacco de camarille ideologiche et faziose.
Cara la mia biondina, fai l’amor dondolante e t’indormenti? Trope fritoe! Altro son l’erotici zavagi! Resto svegio; vardarte da malinconie struggenti! Altro son i sessuali ardimenti!
Cara la mia biondina, vacuo l’universal nido di scienze ed arti, vacuo il talamo di sudori degli amanti. Carnaval è lo spettro di quei tempi; Piazza è palco per goliardi e mestieranti.
Cara la mia biondina, chiuse cassapanche colme d’erotiche vittorie, lasciati teneri silenzi all’oblio di crudo frastuono; un acquerello al Lido, intonato a modo e dedizione, giunge inatteso e tagliente dal lontano-vicino effervescente, sistema di comunicazione. Casuale incombente messia del ricordo; e tutto il tuo corpo emerge dal mare colle braccia di sabbia a fargli da bordo. Dispero e piango senza controllo, cara la mia biondina, sorgi ancora nel lampo di un giorno!
La misera cronaca che segue è la giusta scarna cronologica sequenza di ciò che merita quello che fu dell’artista e suo materiale ricordo.
Carmelo Bene è deceduto il 16 marzo 2002. Alla morte di Carmelo rimasero Maria Luisa, sorella, attrice, co-sceneggiatrice, musa di Carmelo e suo figlio Stefano; costoro ereditarono la proprietà della Casa Turca che fu set di “Nostra Signora dei Turchi”.
La casa venne messa in vendita e Maria Luisa si trasferì in una casa più piccola in affitto lasciando praticamente arredata la Casa Turca che passò in gestione ad un architetto con la smania della poesia e degli affari che pensò di farne un Bed & Breakfast.
Il 15 ottobre 2013 purtroppo viene a mancare anche Maria Luisa ed erede universale restò Stefano che cercò di recuperare dalla Casa Turca tutto ciò che poteva, prima che venisse alienata e trasformata in un’attività ricettiva.
Vi furono proteste, sit-in, raccolte firme, petizioni, per sensibilizzare il Comune di Santa Cesarea Terme in ordine all’acquisizione dell’immobile per farne il museo “Casa di Carmelo Bene” ma tutto fu inutile.
Stefano De Mattia, figlio del primo marito di Maria Luisa ha ricevuto in dono le poesie giovanili e l’ultimo libro “Ho sognato di vivere” ed ha recuperato anche molto altro materiale, purtroppo non tutto perché vive in un mini appartamento a Roma. Con questo materiale egli ha anche organizzato una mostra sempre a Roma. La Bompiani ha ignorato le opere di Bene per 19 anni ma è normale. Tutti i poeti dovrebbero scrivere il medesimo epitaffio: “NE RIPARLIAMO TRA VENT’ANNI”.
Ciò che sciaguratamente è rimasto nella Casa Turca che Stefano non è riuscito a recuperare è di proprietà di capre e somari, incapaci di comprendere e dare il giusto valore a ciò che possiedono.
A nord del piccolo mare dai bassi e fangosi fondali, s’allunga la striscia di terra, ereditiera di dune ammonticchiate da correnti e venti del sud e dell’est, trattenute poi da canne e piccole psammofile eroiche. Ella, coi millenni razziò i flutti d’una laguna tiepida dolciastra rilucente.
Fin da piccola attirò innumeri esserini, desiderosi di non far solo i locatari del basso mare ma d’osare periodici capolini all’aria, magari quando le stagioni cambiano il turno e tutto è pieno di promesse o di venti severi ancora fragranti, appena usciti dal forno estivo.
Tutti lor quanti erano, migliaia di migliaia, rotolati fuori dai frangenti o spinti delicatamente da deboli increspature della bonaccia, davano alle dune qualcosa in cambio. Microorganismi utili alla costruzione: batteri e alghe così da formare lo sterminato campo di viscida tenuta alla corrente, trattenendo sali minerali, silici, carbonati, resti organici.
Quando l’opera d’equilibrio stocastico e destino fu imperiosa avanti le coste della piana regione nordica, infilata come un tovagliolo sotto il pentolame ribaltato della pedemontana a ridosso delle vette zigzagate sul fondo del cielo, giunsero esseri senzienti insofferenti all’abbandono del fato. Bipedi di media altezza e glabri, coperti di materiali non loro, elaborati coll’auspicio d’articolazioni prensili.
Presero, con quelle stesse, possesso del luogo ormai maturo, prima che abdicasse ai limi. Lo colonizzarono non solo ponendovi i loro nidi ma piegandolo nella sua mutazione ai propri desideri, imponendo persistenza e facendone tutto rifugio e dispensa.
Nei secoli costruirono e ricostruirono, costringendo gli accidenti a coincidere accrescendo quella che era una debole linea di sabbia ed incerta, sorta a confinamento delle acque lagunari che torrenti e fiumi andavano addolcendo.
In mille anni e più, fu compiuta la civiltà senziente e tecnologica, capace di normare il diritto del singolo e la tanto perseguita dai loro pensatori “civile convivenza” che tramutò l’animale inumano nell’animale umano, a suo dir, levato sopra i capricci istintuali da fondata ragione.
Ora, una notte d’agosto; quando quella civiltà ha impilato tomi e tomi di storia, costruito templi e palazzi e ville e nobili cimiteri per generazioni di nonni, sparso nel mondo i suoi simili ed instancabile, corso alla ventura per premure d’ogni negozio, dai flutti d’acquatico inchiostro, appena agitati da brezze d’oriente, enorme oggetto emerge.
Pare un tronco, dei tanti, divelti e raminghi dalle terre selvagge, che poi si lascian decomporre sulle sabbie. Poi è proprio tutt’altro, non tondo ma piatto, verticale sull’onda in gran parte sommerso ed oscilla e mostra una fessura: ora più, ora men stretta.
È leggero? È pesante? Galleggia? Più che altro ondeggia dritto e fa supporre che gran parte del suo sia sotto, immerso nell’acqua d’inchiostro della notte d’agosto.
Tra i milioni e milioni di piccoli e men piccoli esseri che vivono in quel mondo ondulatorio e bagnato, nulla è cambiato ma ora tra loro, in quell’anarchia della battigia, ritiratosi di poco il mare, è giunto un colosso bruno di sali di calcio dell’acido carbonico. Svetta in aria per venti metri, largo due e chissà quanto ancora è conficcato nella sabbia pesante d’acque. Istoriato da sottili strisce parallele e trasversali all’altezza, segnanti la crescita, è quindi vivo, o lo fu.
Ora che il sole sporge dallo sfondo blu, piatto, tagliato di netto ed arranca in quell’altro blu che si fa azzurro, in tutta la sua possanza s’ammira il guscio dell’immane mollusco.
Ai timidi silenzi notturni era ben più aperto. Alla velata alba, calma ma costellata di freschi richiami di gabbiani voraci, il guscio è più chiuso ma il colonnare impianto del tutto indifferente al rischio, che per altri simili infinitamente più piccoli è assoluto; infatti tutti lor son pronti al vertical risucchio che simula tumulata pompa d’inusitata potenza, sepolta da qualche antico ingegner buontempone. Così quella sfilza sparisce avanti la foga alare dei pennuti; ma quello no. Resta immobile, indifferente, a godersi il clima.
L’ultimo colono s’imbatte nella creatura fuori scala, fuori dal mare, in buona parte ( forse ) fuori dalla sabbia.
È quello che al mattino passa per primo di là?
Forse; ma è colui che s’accorge che qualcosa è cambiato. È un signore che, retto da instancabile orgoglio salutista, si produce con comoda costanza nel podismo mattutino in quei bordi fragorosi, intrisi e cedevoli.
La sicumera abitudinaria, comprensiva della duplice realtà: instabile ai piedi e monotona al viso, induce lo sguardo a volger presso il basso rimirando il passo, più o men forte, più o men leggero; tale usanza, ormai rappresa nei tempi ripetitivi dell’esercizio, espone lo sportivo al brutal cozzo con rugosa e dura scorza del gigante costiero.
È più impatto o spavento che produce grido e schianto?
L’altro nemmen vibrò mentre chiavi cappellino smartphone ed il primo eseguivano, con distinte parabole, cadute libere al terreno.
Silenzio! Per poco sol piccole onde e brezza. Un lamento, un’imprecazione irriferibile e quella domanda: “ma che casso xeo?”
Stupore si fa largo tra dolore e sorpresa. Sbattendo via la sabbia con la mano e con l’altra al naso sanguinante, ricerca l’insostituibile strumento che immediato testimoni quel vero. Eccolo, tra i granelli in parte infisso, acceso, poco inumidito. Eccolo, colla ridda di funzioni a protendere e replicare memorie. Eccolo scuro piatto sottile, più ampio dei telefonini, ridicoli walkie-talkie a tariffa.
Scorre il dito tremante pel recente shock, avvia l’app, induce col click, imposta il frame, produce il file, passa al social, stabilisce il topic, inserisce il text, avvia il thread.
Non s’è alzato e già s’è gettato in quel mondo promiscuo di strafinzione ed iperrealtà.
S’allontana quanto basta per unirsi ad altri suoi che già spuntano da dune, scogli, cespugli, come ogni mattino d’estate. Biascicano, improvvisano goffe lezioni di scienze naturali, pregano, imprecano, richiamano miti, vaticinano. Innumeri stregoni e dotti, quasi avesser già pria ordito adunanza.
La rete incalza e s’impregna dei piccoli atti da nulla che, come spluvie, espandono l’incendio. Il passaparola è titolone di giornali assetati, notizia di telegiornali asfittici, dibattito e lite di triti talk show.
Creatura gigantesca appare sulla spiaggia del Lido! Enorme mollusco spiaggia al Lido! Bivalve mostruoso scoperto nelle acque di Venezia! È l’inquinamento! È il riscaldamento! È la radioattività! La globalizzazione! È la grande nave! Ecco comitati pro-mollusco e no-mollusco! Raduni ambientalisti coi fuocherelli canne e chitarre! Chi vorrebbe cucinarlo per un’immensa abbuffata! Bagnini protestano! Disordini alle spiagge! Troppi escursionisti! Forte calo dei noleggi di pedalò! Non si consumano gli spritz! Non bastava la pandemia, adesso ci si mettono anche i molluschi! Il Sindaco convoca la sala operativa! Le Frecce Tricolori fanno veloci passaggi sopra bestione immoto che con inesorabile periodicità sale e scende nella battigia, per affermarne inconfutabile essenza patria! Intendono prelevarlo per la scienza; impossibile! Pare capisca e, con la potenza vitale dei suoi simili ma milioni di volte in proporzione, rapido scompare nei meandri sabbiosi tra quei tanti suoi fratellini, antichi creatori. Con la calma deve rispuntar fuori, magari a notte fonda, con la luna piena. E chi ha tempo di aspettare? E quanto costa?
Un bimbo, nessuno ricorda il nome o da dove sia giunto, lo chiama Luke. Luke il cannolicchio!
Egli rimane in quel luogo: per tutta l’estate accanto a Luke. Ci parla, avvicinando la sua testina alla fessura. Allora la mastodontica cappalunga tra granelli di sabbia annacquata, lascia piccole bolle mittenti lieto sussurro. Col tempo ognuno ritorna al proprio vagare, alle proprie faccende. C’è chi ha contato le sottili strisce parallele, sono milioni ma non son tutte.
De pura accidental vicenda scovo, in lo social cassone, antico bran de Aretino, dedito a tal romito in pratiche de venere assai guarnito.
Col mio nome credomi evocato ma trovo altrui che l’ha pur troncato como l’original attore. Ne nasce ardito negozio de favelle buone ed ecco il sunto.
Caro Romito, fummo tiroti in lo ballo por causa de fornicatione nonistante a cuelli de nostra ispecie, si nomen est omen, l’agir colli lombi sirebbe atto de pauco asceticazione et cagion de corrupta spiritual portanza. Ma se sa che lo trattiner per longa pezza le carnal pressure adduce de libido incontinenza et le verghe assai più dure.
Tocco ancora questi reperti della civiltà più che serena. Ella, che nutriva generosa l’Arte Sua, d’innumeri Efesti. Ella, Vagina odorante per lignei bastimenti, gremita di genii e reali prostitute. Ella, sincretismo d’anime sante e perdute. Ella, di pali conci e remenati, salubre ad Eros. Culla! Talamo! Ricovero! Giovamento! Ella, dominante il divino equilibrio tra il principe della solitudine e Thanatos, oltre il Franco Nano, il tramonto dell’ultimo sole repubblicano, i languori ottocenteschi, gli amabili deliri futuristi, il secolo crudele. Ella, oggi, non può più…
Ella rimane reperto, testimonio afono, intraducibile, indefinibile. Sola, nell’inutile, generico non silenzio, di precoci masse inconsapevoli, informate, ottuse. Perisce, nel suo grembo, Eros: sconcio alla globale stupidità; lacero al maniaco svelamento; tristo al compulsivo, febbricitante, logorio delle repliche; vano al pubblico gratuitamente plaudente e ridanciano; largo all’ignobile democraticità.
Eros giace senz’armi né croci. Straziato da immensi, rigidi, frigoriferi galleggianti, da cui non giunge voce ma pallidi lampeggianti. Trascinato da marine correnti e invadenti, che inducono ossigeno al suo vital torpore, bruciando ogni cellula ch’era grata alla nausea d’amplesso ed al dolor inguinale post priapesco.
Eros giace sfinito dal political corretto; affetto da una prostatite corrotta e clientelare; sfigurato da cretinissime spacconate, d’ideologiche disavventure; annichilito nell’invidia iconoclasta del mediocre erede, rincoglionito impotente defunto.
Eros: inafferrabile eiaculatoria liberazione; apotropaico sputo in faccia all’oblio; semplice ed astratto;
Eros soccombe al disumano sforzo di vincere l’inevitabile esistenza, opponendo alla quotidianità spregevole e possibile l’eroicità nobile e impossibile.
Tragedia Bitonica in 3 Atti Unici redatti e diretti da Nicola Eremita da una frase di Massimo Moro: “Perché non fai una tragedia??”
ATTO I SCENA I entrano Scrofoloso e Spampinato due disgraziati
SPAMPINATO: Qual ora che volge al desio siam lesti a camminar?
SCROFOLOSO: Già pria il diss’io; più non dimandar! in sul calar del sole nella foresta andiam e col calcar le suole, indietro non torniam. Mira le nubi far capriuole, non proferir altre parole.
SPAMPINATO: Amici siam da tanti lustri senza speme e per nullo illustri perciò non ti frustri quel che appare tra quegli arbusti!
SCROFOLOSO: amici siam perciò ti credo n’è miasma ma fantasma, ciò che vedo!!
SPAMPINATO: Scrofoloso! Che paura! Son nervoso, presto scappa! Dai fuggim che ormai notte xe drio venir!!
ATTO I SCENA II entra il fantasma Eugenio C.
EUGENIO C.: O mortali! Non fate che vi stecchi! Non tutti i fantasmi sono becchi, compare vostro e vostro protettore qui mi faccio con ardore.
SCROFOLOSO: Non quel che tu desii a noi è conso ma di quel che ci dai fàmme conscio.
EUGENIO C.: Di vendetta e gloria vi faccio dono in cambio di levarmi da quel trono che mi fa dei cornuti Re e Patrono.
SCROFOLOSO E SPAMPINATO: Vendetta e gloria non son per noi! Noi andiam, tu fa quel che vuoi; degne di cavallier son quelle cose per i cafon son disgrazie biliose.
CORO: S’ode un boato, un dittongo e uno iato.
EUGENIO C.: Son Eugenio C. Padron del fato e vostro futuro è già segnato, in disgrazia vi getto di qui a un annetto!!
SCROFOLOSO E SPAMPINATO: Disperazion non ci ange, minaccia non ci tange, già di disgrazia siam pecchi, com’essa ti mise tra i becchi.
CORO: S’azzuffa Spampinato, si rotola sul prato, e presso ad un burrato vede che una cavalla avea cacato e vede Eugenio C. gradasso e preso da orribil sconquasso afferra da terra una castagnola lanciolla in faccia alla banderuola, così continua e così fè Scrofoloso, finché Eugenio non fu lordoso e tutto di cacca involto cascò giù pel colle incolto. Vedendo tal caduta di quell’anima cornuta, i due amici riser tanto d’arrivar financo al pianto. Or già pieni di compassion, l’accettaron qual amicon!!
ATTO II SCENA I Scrofoloso e Spampinato e il fantasma Eugenio C. bighellonano.
SCROFOLOSO: Oggi in tre noi siam scapestri, per il mondo bighelloniam per città e case rupestri, che sarà se non cambiam? Che ne dici sor Fantasma se stà vita da marasma diventasse un tulipano? Al Castello di Merano!! Non è certo come a Linate dove l’aria la paghi a rate.
EUGENIO C.: Orsù andiamo a questa Merano alta la fronte e pronta la mano. Occhio al biroccio, tira quel laccio, Scrofoloso e Spampinato; con voi gliela faccio!!
CORO: Tutti e tre i nostri compari prendon un treno che va fino a Bari, poi, accortisi dell’errore, tornano suso in circa sei ore. Perso il biroccio sotto un ippocastano infin si ritrovano a Merano.
ATTO II SCENA II:
SPAMPINATO: Ecco il Castello in riva al mare guardate come son alte le mura, o Scrofoloso, hai voluto strafare ma la sua mole mi mette paura.
SCROFOLOSO: Mio caro e bon Spampinato tue son le stupidate ed il cervello malato, tu sei pazzo se credi che sto castello si conservi un fatato suggello che maledice colui che puote abitarne le stanze vuote.
EUGENIO C.: Ad esser sincero, a dire del vero; pur anco a me era parso codesto Castello di malvagio cosparso. Si dicea mill’anni addietro ch’esso fosse stato d’un Pietro morto in flagrante amplesso con un grosso maiale lesso, quando consorte trovatolo impietrita ed alquanto crucciata, presa una gamba del tavolo lo schiacciò con una bella stangata!!
SCROFOLOSO: Or stoppate vostra insana natura che del Castello vi mette paura. Fabule son, non hanno riscontro, non vi credete, anzi, ridete, perché se per vere agli altri son contro per noi son robusta parete all’altrui avidità compatta che fa del mondo dell’omo una schiatta!!
CORO: Or vedete i nostri sventurati scrutar essi già questo Castello tremanti per le mura e gli archi rialzati, per gigantesche torri, per profondo avello, che tutto lo circonda e lo fa sontuoso, contro l’ardire dell’uomo voglioso.
ATTO III SCENA I Scrofoloso e Spampinato e il Fantasma Eugenio C. giungono al Castello.
CORO: TOC! TOC! TOC! Fé il Fantasma. ( entra Guliermo il portiere ).
GULIERMO: A che te tu voi? Maledette so i tuoi! A che te tu hai da rompe?
GULIERMO: Oh che te tu dici? Fora dae toe, lassateme stà! Ché colla gente nun voio avé a che fà!
CORO: Guliermo si barrica dentro e preso un secchio di peltro, riempello con orina di topo; e cosa fa ve lo dico dopo. Corre sui piani elevati e lo svuota sui tre disgraziati; allora i tre scompisciati di molto si sono arrabbiati. Sfondan il portone d’un tratto, prendon e menan quel matto.
EUGENIO C.: Espugnato ti ho brutto malanno non far mossa non batter ciglio, o repente subito ti scanno: se mi fai saltar cipiglio!!
SPAMPINATO: Guarda Scrofoloso, gioisci Eugenio; questa fortezza contiene un premio! Cortigiane son quelle! Tutte bionde e tutte belle!
SCROFOLOSO: Quale dolce visione, son più del visone! Vieni bella gnoccona!
MARILONA: Io mi chiamo Marilona.
SPAMPINATO: E tu di nome come fai?
CORTIGIANA: Se mi tocchi passi i guai.
SCROFOLOSO: Agguanta Spampinato.
SPAMPINATO: Afferra Scrofoloso.
SCROFOLOSO: Se non mi sono ingannato.
SPAMPINATO: Questo è Paradiso godoso!!!
ATTO III SCENA II
CORO: I tre furfanti matricolati che le ragazze avean violate non sapean ch’eran fregati siccome a sacrificio ell’eran destinate per quel famoso maiale lesso che la moglie avea trovato col marito in dolce amplesso marito che poi avea stroncato. Sarebbero arrivate di lì a poco due nere anime di fuoco che avrebbero portato il maiale lessato che con orribil latrato si Scrofoloso e Spampinato si sarebbe cibato ed avrebbe bruciato, con alito di velluto, anche Eugenio C., Fantasma cornuto.
SCROFOLOSO: Oh che bella questa vita che orgiando fugge via, resta qui mia dolce Rita, ti regalo una Sierra Ghia.
SPAMPINATO: Oh che bello questo mondo che godendo rende grati, resta qui mio seno tondo ti regalo una Maserati
SCROFOLOSO e SPAMPINATO: Eugenio? Hai tu qualcosa che ti storna?
EUGENIO C.: Amici! Canto alla Luna il dolor delle mie corna! O Luna che in cielo brilli non mi abbandonar piangente assettati ed ascolta i miei strilli senti il mio cantar fremente. che al cuor mi fa venir dei grilli. Guarda quest’uom sofferente. Mogliera mi tradì una sera e fé di mie corna una vera tortura che mai non morì, fintanto che mia vita finì. Tradimmi anche da morto, nasciòmmi sto corno contorto. Or vendetta voglio e pretendo, anche se l’anima al Diavolo vendo!!!
SPAMPINATO: Chi son quei tre figuri che si stagliano sui muri?
SCROFOLOSO: Assassin! Maledizion! Ci disfidano a tenzon!!
EUGENIO C.: Alla spada, alla marra!! E sia morto colui che sgarra!! Difendiamo nostra conquista, dall’odio nemico egoista.
EPILOGO
CORO: Feroce duello s’ingaggia nel Castello. Attaccan da destra gli uomini neri. Difendon da sinistra i tre calimeri! Lo spadon di Spampinato trafigge il nemico; la marra di Scrofoloso lo schiaccia tal fico. Fendenti, magli, volano denti SCRASH! STUNF! SPALF! SOCK! Al par d’Enea lottan furenti!
EUGENIO C.: Ora capisco la maledizion è vera, costoro son de la morte nera, vengon a prenderci per sacrilegio d’aver portato al Castello lo sfregio di nostra presenza invadente; ma non cederemo per niente!
SPAMPINATO: Ah! Colpito son ma non m’arrendo, meglio morire combattendo per un’ora di piacere, dopo una vita di soffrire.
SCROFOLOSO: Ah! Tagliòmmi una man ma son più di Conan, resisterò financo a doman per serbar sto tulipan del Castello di Meran!!
EUGENIO C.: Ah! Maiale lesso, arriva indefesso; allor sei venuto a bruciar sto cornuto? Ah, son fregato! Ah, son bruciato!
SPAMPINATO SCROFOLOSO: No! Eugenio C. No!
EUGENIO C.: Addio addio, amaro è morir senza vendetta ne colpo ferir…
SPAMPINATO SCROFOLOSO: Ah! Maiale mangiòcci, noi poveri fantocci… Per i cafon non c’è speranza. Noi combattemmo feriti e malati, per difender nostra abbondanza ma finimmo morti ammazzati… Non degnosa fu poi nostra morte, in bocca al Maial la nostra sorte ai Cancelli del Ciel ci apre le porte; e pensar che sto casin fu per sei donne e un fiasco di vin!!
CORO: Questa è la storia di Scrofoloso Deodato e dell’amico Rutelio Spampinato che incontrato Eugenio C. s’un prato furon mangiati da un Maiale lessato per sei donne e un litro di moscato.
Estate 2012: no, Venezia pare proprio non essere una località adatta agli artisti, non più; magari un tempo; ma oggi non più. Antonio Melis, poeta, regala i suoi componimenti alla gente; in cambio s’aspetta un’offerta per tirare avanti. Questo non piace. No!
Perchè è una libera e spregiudicata affermazione del libero pensiero, in cambio di una mancetta per un caffè, una pizza, un paio di scarpe usate.
La profonda potenza destabilizzante e sovversiva dell’agire nella legalità con scopi elevati senza alcun patrocinio, senza alcuna ratificazione ufficiale, senza alcuna consacrazione al pubblico si mostra in tutta la sua luce in questo fatto che sembra banale. Antonio Melis non è in linea con ciò che si possa tollerare anche perché è assolutamente lecito.
Feroce negativa distruttiva.
Un massacro del corpo e della mente.
La negazione di qualsiasi illusione.
La nemesi del buono e del giusto, la dynaton dell’immoralità.
Ballo ipocrita e latino.
Latino nel modo più sfacciato e deliquente e irrazionale.
Detestabile come una telenovela, odioso come un colonello argentino.
Arrogante e presuntuoso.
Ballo amato dalle nullità e dai profittatori dalle puttane e dai papponi.
Oggi, purtroppo, rappresentato vilmente nelle milonghe popolari, ridotto ad intrattenimento dopolavoristico e decoro per scorci storici e moderni delle nostre comunità alienate.
Qui, oggi, c’è tutto un sottomondo nostrano ripugnante e gretto, che vivacchia con la bugia del tango in un misto tra finta tradizione fanatismo e “border line” da invasati.
Perse le glorie della miseria, del puzzo di fumo e di sudore; perso l’onore del coltello; perso anche il sapore di lugubre erotismo, non resta che una sconcia parata, insulsa e sdolcinata, di comparse tristi.