Il 22 ottobre 2020 alle 9 e 09 antimeridiane pubblico un post nel gruppo facebook “atei e anticlericali” ( ecco il link al post se volete approfondirlo:
https://www.facebook.com/groups/912883922163646/permalink/3401139100004770/ ), il post afferma che l’ateismo sia la pseudoreligione del XX secolo. Segue una lunga serie di commenti, molti indecenti ed offensivi, alcuni interessanti che hanno animato un confronto, una conversazione, seppur difficile.
Era ovvio che lo fosse, per molte ragioni. Intanto la frase è stringata e non fornisce spiegazioni, sembra sostanzialmente apodittica e perentoria. Quindi essa pare voler provocare l’ateo sul vivo e cioé sulla sua pretesa di essere la nemesi di qualsiasi convinzione irrazionale irragionevole e frutto di suggestioni irreali. Putroppo salvo un solo caso, nessuno ha voluto approfondire la mia affermazione chiedendo lumi.
Essa intende sostenere che l’ateismo si confronta con la religione nel campo della religione e quindi nell’ambito del “credere”. Colui che crede in Dio e colui che non crede in Dio agisce secondo la fede in quanto, se per il primo è impossibile dimostrare l’esistenza di Dio, per il secondo è impossibile dimostrarne la non esistenza. Si tratta di argomentazioni che esulano da qualsiasi sperimentazione empirica e quindi inconfutabili entrambe e completamente estranee alle argomentazioni scientifiche. Sono argomenti di cui la scienza non si occupa.
Per la scienza dimostrare l’esistenza o la non esistenza di un qualsiasi genere di divinità è irrilevante e non pertinente, per il semplice fatto che non vi sono elementi/variabili/fenomeni osservabili e misurabili empiricamente.
L’ateismo non nasce nel XX secolo ma in esso assume alcune caratteristiche proprie delle religioni. Esce dalle pagine dei libri e dai pensieri e dai principi degli illuministi e dei positivisti ed entra nei contesti ideologici dei partiti politici. Si fa potere temporale e trasforma l’ideologia in dogma, il leader in divinità. Le celebrazioni di Stato sono la liturgia del dogma, la gerarchia del partito è la gerarchia del credo. Il leader è il Partito, il Partito è lo Stato, lo Stato è il leader che assume quindi l’onnipotenza. Questa onnipotenza diviene il culto del popolo o della parte fanatizzata di esso e quindi si sostituisce a Dio. L’ateismo è il culto di Stato in Unione Sovietica ed esso è l’alibi di Stalin e delle sue gerarchie oppressive mentre in Germania si camuffa con culti pseudopagani al cui vertice c’è l’immagine di Hitler. Già in precedenza Napoleone aveva intuito la forza devastante di queste idee innovatrici ma non aveva il potere industriale della catena di montaggio e le tecnologie per coinvolgere le masse.
Ecco quindi che l’ateo, convinto di sostenere un ideale di libertà e di ragione, in realtà è portatore di vetusti precetti positivisti come se essi avessero saltato un secolo ( il ventesimo appunto ) per giungere illibati fino a noi. L’ateo poco esperto afferma che sia consapevole della non esistenza di Dio, che sia egli compiuto nell’uso della ragione e gli altri, credenti, quindi esclusi da essa. Lo afferma ma ignora il funzionamento della ragione alla luce del metodo della conoscenza, quella dei nostri giorni.
Se il pensiero positivista del XVIII o del XIX secolo era intento a contrastare l’influenza della religione nel funzionamento delle istituzioni per sostituirvi l’influenza del mondo industriale tecnologico e scientifico ( che a quei tempi erano indistinguibili ), condividendo visioni meccanicistiche, financo a darwiniane della realtà; il pensiero scientifico e filosofico attuale non è dedito ad alcun contrasto ma si è scrollato di dosso le questioni spirituali ponendole al di fuori della speculazione che gli è propria. L’ateo poco informato è rimasto indietro. Non si è accorto delle catastrofi che quel contrasto ha causato al mondo dalla fine dell’ottocento in poi.
Qui avrei voluto portare i miei interlocutori del gruppo. Nessuno purtroppo ha voluto farmi compagnia in questa escursione e tutti sono rimasti affezionati al loro ideale raziocinante di ateo che contrasta la follia immaginaria del credente.
Quale può essere la soluzione?
Purtroppo è una, semplice e drastica: l’ateismo non ha alcun senso, perché non hanno alcun senso le basi della sua negazione. La ragione ha ben altro a cui pensare, così come la pretesa “consapevolezza” e tutte le materie che si intendono dignitosamente scientifiche. L’unica cosa che ha senso nel campo della razionalità e del sapere è non credere. Cioé respingere l’idea che si debba affidare il nostro giudizio a qualcosa che non possiamo sperimentare empiricamente. Anche il non credere in Dio è un atto del credere perché non è possibile sperimentarlo empiricamente.
Oggi, 31 ottobre 2020 aggiungo alla mia precedente, questa ulteriore riflessione, sorta dopo aver letto la descrizione del gruppo “atei e anticlericali”.
Facendo seguito al mio precedente post nel quale, con esercizio di sintesi, definivo l’ateismo come una pseudoreligione, sperando che la conseguente conversazione avrebbe consentito a me di approfondire anche grazie al contraddittorio, ecco qui che trovo la descrizione che l’amministratore ha dato del gruppo “Atei e Anticlericali”.
Ebbene il testo è di pura essenza religiosa.
Analizziamolo:
1) subito il verbo “crediamo” che attiene all’atto del considerare congruo un fatto o un concetto per semplice affezione o per affinità elettiva o per fede;
2) “agire secondo coscienza” pone la questione sulla consistenza di questa parola: attiene al sentire, all’emotività, o al precetto di profonda convinzione morale?
In tutti i casi si allontana di molto dalla ragione e dalla razionalità e dal dubbio per abbracciare la parola “consapevolezza” già molto utilizzata da alcuni di voi nel mio precedente post.
La parola “consapevolezza” tenta di scavalcare l’invalicabile ostacolo della dimostrabilità. L’ateo afferma la sua consapevolezza del mondo e che questa consapevolezza gli svela l’inesistenza di Dio;
3) “un principio morale” ecco che spunta la morale ed è una ( un principio ). Pare che essa sia assoluta e soverchiante l’arbitrio del singolo e pare anche che essa sia una morale etica che quindi voglia organizzare la morale in senso logico per giudicare il prossimo;
4) “non ci si aspetta la ricompensa” questo concetto pone la corona regale sull’essenza religiosa ( e specificamente cattolica ) dell’ideale ateo qui rappresentato. Infatti quale vero credente potrebbe agire in funzione e col desiderio della ricompensa?
La religione cattolica giudica negativamente chi agisce per un interesse sia esso materiale o spirituale. Anche se l’ipocrisia rende molto fumosa questa questione in termini religiosi, è palese che la religione cattolica voglia sempre rappresentarsi come disinteressata e rivolta al bene universale.
5) Infine aver anche solo espresso l’intenzione di “non aspettare una ricompensa in Paradiso” ammette che possa esistere questo luogo di fantasia e che esso abbia propriamente il compito di premiare i fedeli ( della fede avversa ).
Se potevano esservi anche dei dubbi, inizialmente, per dare all’ateismo una collocazione nell’ambito del pensiero, a mio parere ora non ve ne sono più. L’ateismo è inconfutabilmente estraneo al pensiero razionale ed in particolare a quello che pone la scienza come guida e, nel XX secolo è stato assunto come pseudoreligione nella fondazione di regimi totalitari ed oppressivi basati sul fanatismo, sul culto della personalità, sul culto dell’infallibilità e del dogma ideologico, sul culto della supremazia razziale partitica ed etica che prevarica l’autodeterminazione e la libertà di pensiero di azione e d’esistenza del singolo.
INTRODUZIONE
Questo lavoro trae lo spunto da una serie di seminari organizzati presso la facoltà di filosofia dell’università di Roma Tor Vergata nella primavera del 2010 con il titolo “Forme della razionalità e del giudizio”.
L’autore ha partecipato a quei seminari ed ha redatto uno scritto sugli argomenti interdisciplinari, in particolare su quelli di carattere scientifico, che forma la prima parte di questo libro.
Tuttavia le tesi sulla natura della mente e quindi del soggetto cognitivo in generale, che sono la premessa di tutte le argomentazioni esposte in questo lavoro, sono state sviluppate dall’autore già dai primi anni novanta e pubblicate sulla rivista di filosofia della scienza “Epistemologia” (Tilgher Editore – Genova n° 2/2008).
Nell’ottobre del 2011, l’autore ha pubblicato, con Armando Editore – Roma, un libro dal titolo “La mente come fondamento ontologico della conoscenza” in cui lo stesso argomento è affrontato in modo più ampio e nell’ottica del paradigma dei sistemi dinamici “non lineari, caotici e complessi”, assieme ad una critica e a un riesame dei concetti fondamentali della fisica in funzione dello stesso paradigma.
Tuttavia il concetto di “emergenza complessa”, nei sistemi dinamici naturali, che è alla base concettuale sia della proposta sulla natura del “soggetto cognitivo” che delle critiche ai fondamenti della fisica, espresse nel mio precedente lavoro su citato, implica delle conseguenze molto importanti sia sulla biologia che sulla storia della filosofia.
In questo testo sono trattate alcune di tali conseguenze.
IL CONCETTO DI RAZIONALITA’
Ragione, razionalità, verità, sono termini il cui significato o il cui valore semantico dovrebbe essere chiaro a tutti gli esseri umani o almeno a tutti quelli dotati per definizione di “ragione”, ma non è così purtroppo. Ragione o razionalità non è qualcosa che il cosiddetto “soggetto cognitivo” possiede o no, materialmente o come forma a priori nella mente; piuttosto è un processo o meglio l’insieme di “premesse concettuali” e di processi, questi sì razionali, di evoluzione delle “premesse concettuali”. In questo senso io sono convinto che tutti gli esseri umani siano dotati della facoltà del processo dinamico “razionale”: Quello invece che non tutti possiedono sono delle “premesse concettuali” valide o meglio sempre e universalmente condivisibili. Per validità delle premesse concettuali non intendo solo quelle “fisiche” o “sensoriali” o “ontologiche” che necessariamente sono le stesse per tutti quanto, piuttosto, quelle culturali.
E’ qui che ragione e razionalità corrono continuamente il rischio di andare in crisi; questo succede perché le premesse concettuali di carattere culturale non hanno assolutamente nulla a che vedere con il mondo reale, ontologico dal quale, attraverso i sistemi dinamici sensoriali, i soggetti cognitivi hanno derivato le dinamiche evolutive alla base del loro essere anche soggetti razionali.
In effetti il concetto di razionalità, attraverso la storia della filosofia o delle idee in generale, ha subito una serie continua di variazioni e aggiustamenti fino addirittura alla selezione, io direi “all’invenzione” di concetti diversi di razionalità per ogni “regione storica” dell’esperienza del razionale come argomentato dal prof. Paolo Quintili nella presentazione della serie di seminari di cui all’introduzione, citando Husserl:
…Le regioni storiche dell’esperienza del razionale – la sociologica, la giuridica, l’antropologica, la politica, la letteraria ecc. la filosofica stessa – definiscono oggi la loro propria idea (o “essenza”) del razionale (e della stessa ragione) in piena autonomia, in modo utile alla considerazione chiara dei loro oggetti, come d’altronde è necessario che facciano. Ciascuna regione ha la “sua ragione”: cioè i protocolli parziali di messa all’opera dei propri giudizi di vero e di falso, di valido e di non valido, di corretto e di non corretto ecc. che si utilizzano, rispondono all’ordine appunto delle “loro proprie ragioni”…
Personalmente avrei un’idea un po’ drastica delle argomentazioni della filosofia in considerazione proprio delle mie premesse, che provvederò a giustificare nel prosieguo di questo lavoro attraverso alcune considerazioni sulla natura del “soggetto cognitivo”…non me ne vogliano i filosofi…e, naturalmente, non è detto che le mie premesse concettuali siano culturalmente valide e/o condivisibili. Questo significa che come premesse concettuali possono essere proposte stupidaggini assurde e principi che non hanno alcun rapporto con l’etica.
Prima di proseguire tuttavia vorrei precisare il senso di cosa intendo per “ragione” e “razionalità”.
Sono ragionevoli e razionali i modi di evoluzione dinamica degli elementi delle scene dinamiche, acquisite in copia isomorfa nelle reti sinaptiche dei soggetti cognitivi attraverso i sensi e che il linguaggio denota appunto con quei termini. A loro volta quei modi di evoluzione dinamica sono sempre dinamicamente compatibili con l’evoluzione di tutti i sistemi dinamici del contesto reale ontologico. E’ esemplare l’evoluzione dinamica che forma l’oggetto del darwinismo e anche le regole sociali che danno origine ai fondamentali comportamenti etici. Senza tali comportamenti le società sia umane che animali non sarebbero stabili e quindi non potrebbero esistere. Allora, tutti i sistemi dinamici esistenti sono razionali e ragionevoli; razionalità, quindi, uguale a stabilità dinamica. Tale stabilità dinamica, naturalmente, non segue leggi deterministiche. I sistemi dinamici naturali, nel loro complesso, richiedono un approccio olistico per la comprensione da parte del soggetto cognitivo e la loro condivisione nell’ambito delle comunità di soggetti.
Introspezione, argomentazioni “a priori”, semplici tautologie, antinomie, migliaia di pagine, attraverso 26 secoli di riflessioni filosofiche, piene di argomentazioni che, nella domanda, contengono già la risposta. Salvo qualche rara e improvvisa intuizione fondamentale, la filosofia contiene essenzialmente questo. Tutti gli argomenti, le spiegazioni, le stesse domande partono da concetti generali: Dio, assoluto, logos, essenza cosmica universale e così via, per scendere al particolare; essi hanno una sequenza evolutiva UP-DOWN, sono essenzialmente irrazionali nel senso della mia definizione di razionalità ed hanno evidentemente una origine culturale.
In particolare assumono l’uomo, soprattutto la mente dell’uomo, come il principio, il riferimento unico delle proprie argomentazioni, senza avere la benché minima idea di cosa sia la mente e soprattutto la sua natura ontologica. Per tutte le filosofie essa è semplicemente il riferimento unico e fondamentale, in pratica c’è e basta e, in assenza di spiegazioni sull’origine della stessa, o non si è mai presa in considerazione nemmeno la domanda, oppure si è postulata la spiegazione “a priori” un ente che ha provveduto alla bisogna: Dio o qualcosa di simile e indefinito.
Naturalmente è evidente che non era nemmeno possibile pretendere, migliaia di anni fa, le “premesse concettuali” emerse, appunto, attraverso migliaia di anni di evoluzione culturale, ipotesi, errori, rielaborazioni di idee abbandonate, dimenticate e faticosamente riconquistate.
A me personalmente viene da piangere quando penso che 250 anni prima di Cristo, Eratostene aveva già calcolato il diametro della terra con una precisione dell’ 1% e conosceva quindi la teoria eliocentrica di Eraclide Pontico (385-310 a.c.) e di Aristarco di Samo (310-230 a.c.).
Poi, più di mille anni di platonismo, neoplatonismo e teologie.
Abbiamo dovuto attendere il 12° secolo con i filosofi arabi Al Kindi, Al Farabi, Avicenna e soprattutto Averroè per riscoprire Aristotele e la razionalità, la ragione, la logica; insomma delle “premesse concettuali” universalmente condivisibili perché compatibili con i processi dinamici naturali. Tutto questo, purtroppo, senza scalfire più di tanto la preminenza culturale degli idealismi delle teologie e simili: sono troppo più semplici da acquisire della razionalità e della logica, soprattutto da parte della stragrande maggioranza delle popolazioni.
La superiorità culturale della logica e quindi dei processi dinamici naturali, della razionalità e della scienza basata su di essi, è anche testimoniata dai continui tentativi della metafisica, dei platonismi, degli esoterismi e delle teologie, di invocare e di attrarre nei loro argomenti, dei principi razionali che essi non sono mai stati in grado di acquisire e/o di recepire in modo corretto e coerente.
La filosofia greca (come la scienza moderna) cercava di usare la ragione, la razionalità, almeno come base delle argomentazioni esplicative; non sempre in verità, ma sicuramente come principio generale. L’approccio alle spiegazioni del mondo è sempre stato e, nel caso della scienza è, di tipo BOTTOM-UP, anche se persino nella scienza e in particolare nella fisica teorica contemporanea, si tende spesso a usare la fisica per giustificare certe argomentazioni che di scientifico hanno ben poco come, per esempio, il cosiddetto “principio antropico” o addirittura un uso della matematica in un senso come minimo criticabile come in Max Tegmark (Universi paralleli, in sintesi: Le Scienze, Giugno 2003) e in molti altri teorici contemporanei:
…da qualche parte quindi tutto ciò che è possibile diventa reale, indipendentemente da quanto sia improbabile… oppure: …se l’universo è intrinsecamente matematico, perché solo una delle molte strutture matematiche è stata selezionata per descrivere un universo? Nel cuore stesso della realtà sembra esserci una asimmetria fondamentale. Come soluzione all’enigma, ho proposto che valga una simmetria matematica completa: che tutte le strutture matematiche abbiano anche esistenza fisica…
Devo dire per inciso che questo tipo di premesse concettuali mi pare francamente inaccettabile, non solo per l’assurdità delle stesse ma anche perché l’universo non è affatto intrinsecamente matematico ma intrinsecamente non lineare, caotico e complesso1.
1) Naturalmente i termini “matematico”, “non lineare”, “caotico” e “complesso” sono intesi nel senso della modellistica di una evoluzione dinamica di “parti” del reale ontologico.
Fra l’altro, dello stesso tipo sono le “pretese dimostrazioni logiche” della esistenza o della inesistenza di Dio, persino quella di Goedel, il padre dei teoremi di incompletezza della matematica.*
* Quella pretesa dimostrazione consiste di cinque assiomi, tre proposizioni e due teoremi; il secondo e il quinto assioma sono palesemente delle tautologie e Goedel, che era una grande mente logica, non se l’è mai sentita di pubblicarlo.
Pretendere di costruire dimostrazioni logiche della esistenza o non esistenza reale di concetti e enti inventati dalla mente umana e quindi dalle culture umane come, per esempio, il concetto di Dio è sempre una pura esercitazione tautologica.
La realtà di tali concetti non è solo indimostrabile ma essi sono anche perfettamente inutili come fondamenti per la “spiegazione” delle “cause” dei processi dinamici del mondo ontologico.
Il concetto di Dio, in particolare, è inutile non solo come spiegazione dell’universo ma anche e soprattutto come origine dell’etica, basta leggersi la bibbia.
Questa “recente” capacità umana di essere scettici e dubbiosi non mi sembra affatto recente (quanto recente?). Già Socrate l’aveva posta alla base della sua filosofia; sono la ragione e la razionalità i fondamenti del dubbio e dello scetticismo. La differenza consiste nel fatto che ragione e razionalità sono delle doti individuali, la credulità irrazionale è una caratteristica emergente dal sistema sociale con una dinamica collettiva, in quanto il sistema sociale è formato da una enorme maggioranza di individui dotati di una cultura carente, soprattutto a livello scientifico e da caste parassitarie che li sfruttano; gli individui purtroppo acquisiscono quei concetti irrazionali dagli ambienti sociali in cui crescono. Ma quali sono le ragioni per cui quelle premesse culturali, antiche quanto homo sapiens, sono così radicate nelle culture umane? In effetti, da un punto di vista “razionale” (razionale nel senso da me definito all’inizio di questo scritto), esse sono così inutili e irrealistiche che dovrebbe bastare un po’ di buonsenso per eliminarle dal contesto; eppure, dal punto di vista antropologico, sono a tutti gli effetti inestirpabili.
Pretendono addirittura di trovare giustificazioni razionali alle loro assurdità, usando concetti e teorie scientifiche, senza nemmeno rendersi conto che quei concetti e quelle teorie sono assolutamente incompatibili con le loro premesse concettuali.
Basta considerare i risultati pratici raggiunti dalle scienze in soli quattro secoli e paragonarli ai risultati pratici dei precedenti millenni della storia umana. Non è molto tempo che mi pongo questa domanda, peraltro tema di antropologia culturale. Ho sempre considerato scontata questa situazione culturale, finché non mi sono scontrato intellettualmente con un gruppo di persone, che consideravo carissimi amici, cultori di tesi platoniche e buddiste, che io non condivido affatto, ma la cui conoscenza considero necessaria come retroterra culturale, anche per il paradigma scientifico. Comunque mi sono meravigliato moltissimo del fondamentalismo, di tipo anche religioso, di persone peraltro sicuramente intelligenti e di buona cultura ed ho incominciato ad approfondire le ragioni di tale fondamentalismo, peraltro praticamente universale nelle società umane, anche in funzione della mia teoria della mente, come auto evoluzione di copie dinamiche isomorfe del mondo ontologico, nelle reti sinaptiche nel cervello.
Certamente non è affatto facile né così scontato condividere le mie conclusioni; infatti esse sono completamente al di fuori di qualsiasi tipo di determinismo scientifico e di idealismo filosofico come, del resto, di praticamente tutte le tesi della psicologia, credo anche quella sperimentale, anche se esse potrebbero facilmente esserne la premessa ontologica.
Le mie proposte per una possibile ragione di questo comportamento e della persistenza assolutamente maggioritaria nelle culture, traggono anch’esse la loro origine dalle mie tesi sulla natura della mente umana.
“Ciò che l’uomo asserisce di Dio, in realtà lo asserisce di se stesso”. “L’uomo non può pensare, immaginare, rappresentare, sentire, credere, volere, amare e venerare, come assoluta e divina, altra essenza che l’umana”.
La religione – ogni religione in quanto discorso sull’uomo e sul divino – è dunque, in realtà, divinizzazione dell’umanità. Ma se la fede nel valore dell’uomo è la verità di tutte le religioni, ciò vale in massimo grado per il cristianesimo, venerazione non più di singole qualità bensì della stessa essenza umana. La dottrina cristiana dell’incarnazione è la dichiarazione più esplicita dell’essenza antropoteistica della religione. “L’essenza umana per eccellenza”: questo è il Dio incarnato, il Cristo, simbolo vivente dell’amore dell’uomo per se stesso e per l’umanità.
Implicitamente contenuto in queste affermazioni che preludono a quella riabilitazione del materialismo che entusiasmerà il giovane Marx, è il nocciolo teorico della critica feuerbachiana della religione. Il sentimento, il desiderio dell’uomo, i suoi bisogni e la sua miseria, la sofferenza quotidiana; e ancora, i rapporti intersoggettivi, la dialettica fra gli individui e tra l’individuo e la specie, in una parola l’esperienza concreta, la vita quale si sviluppa nella realtà dello spazio storico: qui sono insieme la fonte e la verità ultima della religione. La quale non è dunque che il risultato di un movimento proiettivo per effetto del quale l’uomo oggettiva se stesso (trasforma attributi propri – del singolo e del genere – in esseri autonomi) per poi fare del sé oggettivato l’oggetto della propria adorazione…
(Ludwig Feuerbach: L’essenza del cristianesimo – Introduzione di Alberto Burgio pag. x-xi – G. Feltrinelli Editore-Milano – 2010)
Dio in quanto dio, ossia concepito come un essere non limitato, non umano, non materialmente determinato, non sensibile, è unicamente un oggetto del pensiero. E’ l’essere metafisico, inafferrabile, senza forma, senza figura, l’essere astratto, negativo, che viene riconosciuto, ossia oggettivato, soltanto attraverso astrazione e negazione (via negationis). Perché? Perché non è altro che l’oggettivazione della facoltà del pensiero, ossia della facoltà o attività in genere, la si chiami come si vuole, per mezzo della quale l’uomo ha coscienza della ragione, dello spirito, dell’intelligenza. L’uomo non può credere, presentire, immaginare, pensare nessun altro spirito, ossia nessun’altra intelligenza – il concetto di spirito è unicamente il concetto di pensiero, di conoscenza, di ragione, ogni altro spirito è una creazione della fantasia – all’infuori dell’intelligenza che lo illumina, che opera in lui. Null’altro può fare che sceverarla dai limiti della propria individualità. Lo spirito “infinito” distinto da quello finito non è perciò che l’intelligenza sceverata dai limiti dell’individualità e della corporeità – individualità e corporeità sono infatti inscindibili -, non è che l’intelligenza posta e pensata per sé stessa. Dio, dicevano gli scolastici e i Padri della Chiesa, e già prima di loro i filosofi pagani, Dio è un essere incorporeo, un’intelligenza, uno spirito puro; di conseguenza non ci si può costruire alcuna immagine di Dio come Dio. Ma puoi tu costruirti un’immagine della ragione, dell’intelligenza? Ha essa una figura? La sua attività non è forse la più inafferrabile, la più difficile da rappresentare? Dio è inconoscibile; ma conosci tu forse la natura dell’intelligenza? Hai tu mai penetrato il misterioso processo del pensiero, il mistero dell’autocoscienza? L’autocoscienza non è forse l’enigma degli enigmi? Gli antichi mistici, gli scolastici e i Padri della chiesa per spiegare l’inconoscibilità e l’irrappresentabilità dell’essere divino non l’hanno già paragonata con l’inconoscibilità e l’irrappresentabilità dello spirito dell’uomo? In sostanza non hanno già identificato l’essere di Dio con l’essere dell’uomo? Dio come Dio, ossia come essere solo pensabile e che si oggettiva unicamente alla ragione, null’altro è dunque che la ragione che pone se stessa come oggetto…
…Dio è un’esigenza del pensiero, un’idea necessaria, il grado più alto della facoltà speculativa. “La ragione non può arrestarsi alle cose e agli esseri sensibili”; è appagata solo quando risale fino all’essere sommo, primo, necessario, che unicamente alla ragione si oggettiva. Perché? Perché solo nel concetto dell’essere sommo viene posto il sommo essere della ragione, viene raggiunto il grado più alto del pensiero e dell’astrazione. Sentiamo in noi una lacuna, un vuoto, una deficienza, siamo quindi infelici e inappagati, fin tanto che non arriviamo al grado ultimo di una nostra facoltà, finché non arriviamo a ciò quo nihil maius cogitari potest, finché non portiamo alla perfezione massima una capacità a noi innata per questa o per quell’arte, per questa o per quella scienza…
Ludwig Feuerbach – citato pag. 57-58.
Secondo Feuerbach quindi, le religioni sono un costrutto psicologico di origine antropologica, derivante cioè anche dall’evoluzione delle culture umane. Io le definirei addirittura paleoantropologiche: gli esseri umani hanno bisogno di un essere superiore e se lo creano nella loro mente, così come si creano tutte le “premesse concettuali” contenute in praticamente tutta la metafisica, per “spiegare” in modo anche approssimativamente razionale, la propria mente e il mondo che ci circonda.
Riconoscere questo fatto è, secondo il mio parere, all’origine dell’ateismo non solo come certezza della “non esistenza di Dio ma della non esistenza reale, ontologica di tutti gli enti, “energie sottili”, mente universale, “uno” o, per ridere un po’, “quelo” di Corrado Guzzanti e/o quant’altro inventato dagli esseri umani e dalle loro culture per darsi una spiegazione della loro stessa esistenza. In questo senso l’ateismo non solo non è un altro “atto di fede” nella “non esistenza di…” come spesso sostenuto dai cosiddetti credenti, ma non serve assolutamente per spiegare alcunché; esso è solo il riconoscimento dell’assoluta inadeguatezza logica delle premesse concettuali di tutta la metafisica, compreso il concetto di Dio, come premessa dell’aspirazione del “soggetto cognitivo” a darsi una spiegazione della propria stessa esistenza. La tesi che Feuerbach, se avesse conosciuto il Budda, non avrebbe scritto il suo libro, come mi è capitato di ascoltare, secondo me non regge assolutamente.
La certezza del Budda dell’esistenza di un mondo transuranico accessibile attraverso la meditazione e di tutte le tesi metafisiche e teologiche che accompagnano questi enti, inconoscibili per definizione, si scontra alla fine con la domanda fondamentale e inevitabile: qual è la natura della mente? Risposta della metafisica e del Budda: il mondo transuranico, extrasensoriale che interagisce con il mondo reale e la mente attraverso le “energie sottili”. Non ho ancora incontrato qualcuno che abbia un’idea valida della natura reale del concetto di energia, nemmeno la fisica. Alla fine sono tutte argomentazioni circolari, assolutamente tautologiche: le conclusioni sono sempre contenute nelle premesse. E’ molto più apprezzabile Socrate con i suoi “non lo so” che il Budda con le proprie “esperienze” e “certezze” assolutamente personali. Penso che proporre le tesi metafisiche con modalità argomentative che implicano quelle premesse concettuali come “assiomi” e per ciò stesso indimostrabili, siano praticamente tesi dogmatiche. Ma Feuerbach dà una interpretazione psicologica di queste credenze, certamente valida e interessante ma non completa; per un tentativo di comprensione, per quanto possibile più articolato, occorre conoscere meglio la natura della mente. Credo che le mie tesi su questo argomento possiedano una coerenza totale con la natura dinamica dell’universo. Sono anche vere? Come Socrate, anch’io dico “non lo so”, certamente sono verosimili, proprio in funzione della coerenza reciproca dei sistemi dinamici dell’intero universo. Generalizzando, credo che il dubbio sistematico sia scientifico, quello filosofico sia occasionale, quello teologico sia inesistente.
Ma, come si evince dagli studi di moltissimi antropologi, etologi, psicologi ecc., la tendenza alla credulità è ancora più fondamentale, visto che è presente persino negli animali inferiori; essa, evidentemente, deriva dalla natura di auto evoluzione delle copie dinamiche sensoriali nelle cortecce sempre più complesse nella evoluzione animale e quindi nell’uomo. La mia teoria della mente credo che possa darne una spiegazione affidabile. Riporto la parte finale di un articolo di Stewart Guthrie su MicroMega di gennaio/2014: Dall’animismo animale al senso religioso – pag. 138 e seguenti.
L’animismo – ossia l’attribuzione della capacità di agire a oggetti che non la possiedono – è un’attitudine che accomuna l’uomo e gli altri animali ed ha una radice evoluzionistica: presumere che dietro il fruscio di un ramo ci sia un predatore anche quando non c’è, è dal punto di vista evolutivo, preferibile all’atteggiamento contrario. E questo “istinto” animista è anche alla base delle religioni…
…La maggior parte degli studiosi (per esempio Piaget, 1926) che si sono occupati di animismo, lo attribuiscono ai bambini e alle persone appartenenti a società di dimensioni ridotte (tribali o primitive) e la maggior parte degli studiosi vede l’antropomorfismo – l’attribuzione di caratteristiche umane a cose ed eventi non umani – come non collegato all’animismo e come un problema minore, benché deplorevole, nella cognizione umana. Viceversa, io vedo animismo e antropomorfismo come dilaganti nel pensiero e nell’azione umani, e come sovra-attribuzioni di organizzazione, strettamente connesse e spontanee, a cose ed eventi […]. Proprio come l’animismo può essere visto come il risultato di una strategia di percezione che opta per la prudenza in un mondo ambiguo, l’antropomorfismo può essere compreso alla stessa stregua. Spesso i due atteggiamenti si sovrappongono. Pur essendo stato oggetto di critiche per centinaia di anni, l’antropomorfismo continua a prosperare. Prospera nelle arti e persino nelle scienze […]. Prospera anche nelle percezioni spontanee della vita di tutti i giorni, come quando udiamo voci nel vento o nell’impianto idraulico, o ci sembra che qualche meccanismo ci opponga resistenza. (o, aggiungo io, vediamo fantasmi o manifestazioni metafisiche varie (nda). L’animismo è similmente diffuso. Le prove della pervasività di antropomorfismo e animismo, persino in società complesse e industriali, vengono da molte fonti…
…Precedenti studiosi che hanno scritto della religione come antropomorfismo (specialmente Spinoza, Hume, Feuerbach, Freud e Horton, e di recente, in una maniera simile alla mia, Wenegrat) o come animismo non si sono trovati d’accordo sulla natura di questi due fenomeni e non hanno prodotto alcuna spiegazione realmente convincente di essi. Di conseguenza, non hanno prodotto alcuna teoria della religione realmente convincente. In parte, dal mio punto di vista quella che è mancata è stata una descrizione cognitiva dell’antropomorfismo e dell’animismo che li affrontasse in generale anziché solo all’interno della religione. Buona parte del mio lavoro si è concentrata proprio su questo aspetto. Oltre a questo, è mancata anche una cornice evoluzionistica per gli argomenti in questione. Tale cornice – ancora in fase di costruzione – può potenzialmente collegarci ai nostri parenti animali, unendo scienza cognitiva ed etologia. Questa impostazione ci incoraggerebbe a vedere che negli scimpanzé, ad esempio, sia l’abilità di creare un compagno di gioco o un mostro immaginario, sia quella di individuare altri scimpanzé nella foresta grazie a segni visivi come rifiuti o fogliame smosso, altro non sono che la capacità di immaginare ciò che non è presente. Non siamo distanti dalla capacità, famosa nei popoli di cacciatori-raccoglitori, di “vedere” la selvaggina dalle orme e da altre tracce. Questa capacità equivale a mettere insieme un mondo partendo da un’evidenza indiretta, e non è molto diversa dall’attività quotidiana che caratterizza la scienza (ad esempio, nel presupporre particelle subatomiche dalle loro scie fugaci) e la religione (ad esempio, nell’Argomento del Disegno). Nella ricerca di una spiegazione della religione, io credo, siamo stati sedotti dal simbolismo e fuorviati da un falso senso dell’unicità umana. Di conseguenza, abbiamo dimenticato un bisogno vitale che condividiamo con altri animali: quello di interpretare un mondo ambiguo e di scoprire agenti reali, tutti noi pensiamo inevitabilmente di vederne dove, in realtà, non ve n’è alcuno.
Caro Vincenzo Cristiani,
sono lusingato dalla tua attenzione e dall’aver voluto condividere qui il tuo complesso pensiero filosofico. Ho letto solo una volta il testo e chiaramente non basta. Ammiro la tua volontà di allargare il concetto di ateismo e di aggiornarlo al nostro tempo col contributo della tua tesi.
Come avrai ben capito la mia non è una tesi da credente ma è in realtà una tesi che cerca di superare semplicemente la questione. È il concetto stesso di “credere” che va messo da parte e con questo sono convinto di spolverare proprio gli antichi cultori della logica ( perdona la presunzione ).
Circa i tuoi riferimenti a Feuerbach vi sono atei che disconoscono ( o non conoscono ) proprio le sue tesi e l’ho scoperto in questi ultimi giorni. Sono fermamente convinti che la religione abbia inventato Dio. Saltano un passaggio che è quello che Feuerbach espone con chiarezza e si lasciano andare alle questioni del potere nelle comunità.
Resta fortissima l’idea che essere atei significhi negare il potere della religione ( sarebbe più corretto allora definirsi anticlericali ). Io invece penso che la più alta espressione del riconoscimento dell’attività immaginaria dell’uomo nel costruire un suo io divino ( o altro ) sia quello di concedere ad essa la collocazione al di fuori della speculazione scientifica e razionale.
Anche se è proprio da quel tumultuoso immaginare che è sorta ogni civiltà e cultura umana. È ciò è importante perché non vorrei che quella collocazione ponesse l’immaginario in condizioni minoritarie, cosa che sarebbe foriera di terribili conseguenze per tutti noi.
Caro Nicola Eremita,
Sono d’accordo con te che l’ateismo non è un concetto semplice da definire. Io ero già ateo a tredici anni, venendo da una famiglia dove noi figli eravamo costretti a dire tutte le sere le preghierine nel latino maccheronico di nostra madre. Tuttavia il mio concetto di ateismo di adesso è cosa completamente diversa di quella da giovane. Non c’è più alcun riferimento di carattere religioso, è rimasta invece la razionalità e anche quella con un significato particolare derivante soprattutto dai miei studi su mente e autocoscienza. Come ho scritto nel testo che ti ho spedito: L’ateismo è solo il riconoscimento dell’assoluta inadeguatezza logica delle premesse concettuali di tutta la metafisica, compreso il concetto di Dio. Dietro queste convinzioni ci sono più di sessantacinque anni di studi che mi rendo conto non è che abbiano prodotto chissà cosa ma ritengo di non essere rimasto proprio ignorante. Alla mia veneranda età sto correggendo le bozze del mio terzo libro.
Si Vincenzo, ho ben inteso e mi spiace per questi fatti costrittivi della tua infanzia, i bimbi hanno bisogno di scelte. Ho già ricevuto da altri “atei” l’idea del loro ateismo. Pare proprio che ognuno ne abbia una.
Chi un abbozzo grezzo e banale, chi un articolato sistema di idee.
Capisco quello che affermi e lo condivido. Il mio appunto è rivolto forse più alla semantica che, in questa nostra società, si sta sgretolando completamente, trasformando il linguaggio in gesto.
Ecco quindi che quel che affermo è semplicemente di assoluta comprensione per il termine ed il significato di ateismo. Comprensione che vuole lasciare ad esso il suo ruolo nel suo contesto che è quello del credere ( non religioso ) già deturpato da coloro che ne hanno fatto pure una bandiera di assolutismo e quindi lo hanno degradato a pseudoreligione.
Io, leggendoti, condivido il tuo pensiero ma sposto l’attenzione dal termine e quindi dal pensiero propriamente ateo. Lasciamo le questioni di fede insomma. Abbandoniamo il concetto di credere a chi ama adoprarlo ed accoglie tutto quello che di buono ( poco ) e di cattivo ( molto ) ne consegue.
Anche ciò che afferma Feuerbach è significativo ma, giustamente, esce dall’ambito del credere per formulare teorie verificabili che studiano variabili misurabili ed osservabili. È fallita completamente ogni concezione del credere. Sta fallendo anche oggi con la politica che anch’essa insiste nel chiedere all’uomo atti di fede.
La risposta, a mio parere, è nel rifiuto totale del concetto di credere. Eliminarlo anche dal vocabolario ( mai usare il verbo credere in qualsiasi discorso ). Ecco che in questo modo si contrasta il male della religione e si può accogliere il bene che sussiste nell’irrazionale di cui siamo inevitabilmente composti ( e per fortuna ).
Se ci concentriamo sulla semantica possiamo cambiare realmente il mondo perché evitiamo di dividere gli uomini fornendo a costoro uno strumento e non una soluzione. È come insegnare a pescare invece di donare del pesce. Quanto difficile è, oggi, esprimere un concetto controintuitivo o anche solo un pensiero di una certa complessità senza essere fraintesi?
È aumentata la platea di chi può leggere ma non quella di chi vuole veramente capire.
Questo mio articolo non aveva l’ambizione di attrarre l’attenzione di persone della tua levatura culturale ma di rivolgersi alla normalità per tentare di insinuare il dubbio; ma questo esito inaspettato è per me di grande soddisfazione.
Con ciò ti invito a leggere anche l’articolo che, non so se necessariamente, è scaturito come un piccolo aborto da questo qui: https://www.nicolaeremita.it/speculazioni-extra-scientifiche-big-bang-mente-umana/
ciao!