Facendo ammenda devo dichiarare che seguo con drammatica distrazione i fatti della cronaca. Ho saputo solo ieri della vicenda dello spot Dolce&Gabbana. Ho seguito sui social network le svariate contumelie e le esternazioni di molte persone.
Ho riflettuto ed ascoltato lo spot in lingua originale, poi ho ascoltato la traduzione dal canale youtube di Barbaroffa che alla fine dell’articolo allego come link.
Temo che qui si sia verificata un’inversione di tendenza; un fenomeno che forse pochi o nessun intellettuale ha compreso nelle sue svariate sfumature; che sicuramente potrebbero interessare un sociologo o un antropologo. Qui cercherò d’illustrarne i contorni che ho, con una certa difficoltà, cercato di delineare.
Barbaroffa espone una visione da esperto della cultura orientale, o, quanto meno, dal punto di vista di chi conosce in senso generale la mentalità del cinese; e dichiara, con sicurezza, che il messaggio dello spot sia stato mal costruito mal indirizzato e, quindi, malamente compreso o meglio, considerato apertamente come una derisione, un’umiliazione o uno svilimento della millenaria cultura cinese.
Io dico: “Eh la Madonna!”.
Non avrei mai pensato che un banale spot pubblicitario debba pesare le millenarie culture dei popoli e le sensibilità delicatissime di 3 o 4 miliardi di persone o dei loro solidissimi governanti; e qui, forse, sta il punto.
Visionando lo spot con leggerezza si ha l’impressione della solita semplice, banale, provocazione; realizzata con strumenti in apparenza grossolani: la solita bella ragazza, un contesto orientaleggiante, un testo banalissimo e volutamente “paternalistico”, le pietanze italiane che si susseguono. La solita vecchia storia del mangiare con le bacchette dei cibi non adatti a quegli strumenti.
Tuttavia, per un esperto d’arte contemporanea, lo spot merita maggiore attenzione. In particolare le pietanze: sono un evidente “fuori contesto” perché non hanno nulla a che fare con l’oggetto del messaggio che è l’alta moda; esse sono esagerate nelle dimensioni, con ovvio intento ironico-caricaturale. Qui è la cucina italiana che viene degradata ad una visione oleografica e stereotipata; una cucina di “roba grossa” “grezza”, che si pone in contrasto con la delicata eleganza della ragazza orientale la quale non è per nulla passiva ma tutt’altro, partecipa divertita al gioco che le viene proposto. Un gioco! Accidenti! È pubblicità!!
Il contrasto che si propone è sottile, il messaggio non è banale e tantomeno diretto: si pone la sfacciata moda italiana, col suo passato ed il suo presente di eccessi e di barocchismi, incarnata in pietanze tipiche, al cospetto della sottile, raffinata, elegante e decisamente positiva sensibilità degli orientali. Costoro infatti sono rappresentati da una ragazza giovane carina sorridente complice e simpatica; che non ha alcun comportamento passivo o sottomesso ma è solamente divertita dal gioco che le viene proposto e non imposto.
Qui nessuno ha capito nulla; in particolare coloro che hanno analizzato i fatti come sono accaduti e si sono precipitati in giudizi sommari.
Se fossimo ai tempi anteriori ai social network potremmo anche tranquillamente infischiarcene di chi non ha capito. Il messaggio sarebbe veicolato con mezzi unidirezionali verso il vasto pubblico ma con l’intento di raggiungere solamente una minima parte di esso; coloro che hanno il reddito adeguato ad acquistare Dolce&Gabbana. Quella parte di popolazione che vede nella moda italiana un modello di riferimento, magari che ha già introiettato quei concetti di globalità tanto cari alle classi dirigenti occidentali. Gli altri seguiranno. La massa acquisterà Dolce&Gabbana per emulazione. Acquisterà un pezzettino di quel mondo irraggiungibile per credere di farne parte. Rivedrà nella propria mente quelle immagini esagerate della reclame; quelle immagini volutamente sopra le righe, eccessive e prorompenti, parossisticamente provocatorie che faranno credere di essere al centro di una vita speciale.
I tempi però sono cambiati e la comunicazione deve tener sempre in conto la bidirezionalità, il feedback, quindi il consenso; che non è più limitato al potenziale cliente ma è “comunicazione globale” nella quale tutti i consumatori; ma più generalmente, tutti gli spettatori, possono interagire. Lo spot di Dolce&Gabbana è arrivato a chiunque e chiunque ha potuto scatenare contro di esso le proprie intime frustrazioni e misurarlo col proprio personale e ristretto punto di vista; e ciò che in una popolazione è globale non potrà mai essere in grado di cogliere le sfumature o i sottili riferimenti. Ciò che è globale tenderà a cogliere simboli e significati grezzi dozzinali superficiali e riferiti alla più cocente attualità, senza alcun tipo di elaborazione o di riflessione, senza alcuna differenziazione.
Tale processo inoltre avrà la caratteristica d’autoalimentarsi e di assumere l’effetto di una reazione a catena attirando a sé solamente una sempre maggiore reiterazione. Diventando una valanga ingovernabile che spazzerà via qualsiasi intento di dare le opportune valide e sensate spiegazioni. Questa valanga avrà quindi la potenza di coinvolgere persino i governanti i quali, seppur indifferenti al contesto pubblicitario, dovranno, per ovvie ragioni, dar conto al consenso della pubblica opinione.
Domenico Dolce e Stefano Gabbana non sono stati tratti in inganno e non hanno in nessun modo dimostrato di non essere consapevoli di questa realtà. Il loro non è assolutamente stato un errore di comunicazione. Hanno semplicemente ricevuto la definitiva e concreta risposta di un interlocutore sbagliato.
Sì, esatto, in questa vicenda lo sbaglio lo fa l’interlocutore. Perché non comprende che Dolce&Gabbana, col loro spot tanto desiderato e mandato in onda contro il parere dei manager, hanno inteso realizzare ciò che ha l’ambizione dell’opera d’arte. Ovvio, non possiamo pretendere, dopo quello che si è scritto sopra, che l’interlocutore sia consapevole di questo suo sbaglio.
Quando la comunicazione era unidirezionale la reclame poteva provocare e non produceva le conseguenze odierne; magari qualche articolo di giornale, un poco di brontolii ma tutto portava infine l’acqua al mulino della ditta: fama, gloria, attenzioni, vendite, profitti. Un circolo “virtuoso” che per decenni ha convinto sempre più le grandi firme, in particolare i colossi dell’alta moda, che il loro mestiere sia più attinente all’arte che all’artigianato. La moda è diventata una “forma artistica di comunicazione” solamente perché lancia strali ad un largo pubblico privo della benché minima possibilità di reazione strutturata ed efficace.
Insomma, finché il pubblico non esisteva tutto bene. Del resto è come per l’arte pura. L’arte si rivolge sempre ad un’élite, non dialoga con le masse. Sarebbe impossibile, altrimenti, alcuna innovazione e, soprattutto, alcuna drastica dissacrazione o blasfemia o rivoluzione; mentre sappiamo bene che l’arte si rinnova spesso grazie a queste qualità.
Questo perché le masse non sono propense al cambiamento per loro intrinseca natura; inoltre non sono in grado di cogliere aspetti di sintonia “fine” come la satira o il sarcasmo, soprattutto perché spesso sono fuori contesto; e l’arte ha, tra le sue grandi doti, proprio il pregio di rappresentare “fuori contesto”, al fine di riportare ogni cosa in un ambito astratto ed ideale. Lo spot, mettendo al centro della scena del cibo, attua un “fuori contesto” esemplare che, nella sua leggera banalità, cerca di strizzare l’occhio alla massa, divenendo indigesto pure all’élite.
Impossibile, quindi, poter ancora giocare la pedina dell’arte nella scacchiera del mondo contemporaneo, centrando un “fuori contesto” come l’alta moda con uno spot artisticamente perfetto ( in questo caso il fuori contesto sarebbe appunto l’arte utilizzata come mezzo di comunicazione per l’alta moda ). È praticamente un suicidio; ma è, finalmente, un modo per dei bravissimi artigiani e stilisti, di sperimentare quanto sia duro e spietato il reale mondo dell’arte; dove la cosa più comune è non venir capiti.
Dolce&Gabbana hanno voluto aspirare all’essere artisti e lo hanno fatto con sincera onestà e rischiando parecchio. Producendo questo spot, secondo me, hanno fatto un omaggio all’arte contemporanea in un suo particolare aspetto di provocazione innocua e conformista, come va molto adesso nei musei e nelle gallerie, spesso sponsorizzate dalle stesse case di moda.
Quello che hanno profondamente sbagliato è stato l’aver voluto fare gli artisti senza tener conto delle possibili catastrofiche conseguenze in termini di affari. Perché dietro la loro firma vi sono migliaia di persone che lavorano, d’investitori, di fornitori. Un vero e proprio mondo, che con questa uscita artistica, ha rischiato d’incrinarsi o addirittura di crollare. Si perché i margini sono strettissimi per molti e basta veramente poco per perdere tutto.
L’artista invece rischia di suo e basta. Rischia perché si dedica alla sua arte invece di trovarsi un lavoro; rischia perché magari intraprende percorsi complessi e poco “commerciali”; ma rischia di suo, al più mette in difficoltà amici e parenti. In tal senso tuttavia l’artista ha la reale possibilità di essere più libero e, magari, più concretamente artista.
Questo, purtroppo, Dolce&Gabbana non possono permetterselo, per un semplice senso di responsabilità verso una moltitudine di persone che non hanno sposato una “causa artistica” ma, semplicemente hanno inteso mettere a frutto le loro sudate professionalità per construire una esistenza e, magari, conseguire la felicità o la realizzazione.
Queste sono le conseguenze della comunicazione globale e le sue pessime ricadute sulla possibilità di utilizzare i mass media per trasmettere un messaggio “artistico”. Meglio coltivare l’interesse per le arti nel proprio privato. Il rischio è solo personale.
Link al video di Barbaroffa: